Cronache
La suora blogger che aiuta i bambini a diventare uomini
Intervista a suor Elvira Tutolo, 60enne termolese missionaria in Africa. Da 10 anni vive a Berberati, villaggio della Repubblica Centroafricana dove gestisce un centro culturale nell’ambito del progetto "Kisito", nato per togliere i ragazzi dalla strada. «Diamo loro gli strumenti per crescere» dice della sua missione. E ora lancia un blog per diffondere la sua esperienza a Termoli e in tutto il mondo.
di Stefano Di LeonardoGalleria fotograficaTermoli. “Sara mbi gazo”. Tradotto in italiano vuol dire “Aiutami a diventare uomo”. E’ il nome assegnato al centro educativo agricolo-pastorale di Berberati, repubblica Centroafricana, nel quale lavorano 20 dei ragazzi seguiti dal progetto “Kisito” alla cui guida c’è suor Elvira Tutolo, 60 anni, termolese. Ma in quelle quattro parole nella nostra lingua c’è tutta l’opera di missionaria di suor Elvira. Un’opera che lei stessa definisce con una metafora. «Insegniamo a questi ragazzi a pescare e non diamo loro un pesce ogni giorno». Non mero assistenzialismo quindi, ma fornire conoscenze e strumenti per poter costruire da soli la propria esistenza. Così come lei stessa ha fatto, fin da quando, da ragazzina, sorprese tutti scegliendo di rispondere alla vocazione cristiana diventando suora missionaria. Una scelta che l’ha portata in Africa, dove vive da 20 anni e collabora a progetti nati per togliere i ragazzi dalla strada, facendoli studiare, lavorare, divertire. In quattro parole, aiutandoli a diventare uomini. E ora ha deciso di raccontare questa missione, in questa intervista e in un
blog. «Spero - confida - che qualcuno si interessi a questa esperienza».
Suor Elvira, prima ancora di parlare dell’Africa, parliamo di lei. Cosa l’ha spinta a diventare suora? «Ad indirizzarmi sono stati il mare e lo sport. Il mare sulla spiaggia di Sant’Antonio e la linea dell’orizzonte mi hanno rivelato un’esigenza di infinito. Lo sport perché a scuola ne praticavo molto e il mettermi alla prova e il combattimento erano qualcosa che mi rispondeva dentro. C’è un terzo elemento, che è la mia famiglia. Quando ero piccola soffrivamo per arrivare alla fine del mese. Questo mi ha spinto a un senso di rabbia e quindi un combattimento per la giustizia. A 12 andai a protestare dal sindaco per lo stipendio di mio padre».
Addirittura?
«Sì, avevo 12 anni e mi mettevo dietro la porta dell’ufficio del sindaco Lapenna per chiedere di essere ricevuta. Alla fine ottenni quello che volevo, lui fu molto gentile e si impegnò».
Torniamo alla sua decisione di diventare suora.
«Sentivo che questo passo rispondeva alle esigenze che avevo dentro. Avevo 18 anni. In famiglia non la presero bene, rimasero delusi, contavano su di me. Nessuno ipotizzava questa decisione. Fu uno strappo molto doloroso che pian piano si è ricucito».
Quando è maturata la decisione di partire per l’Africa?
«Ho fatto prima varie esperienze come insegnante di Pedagogia e poi in centri di recupero per tossicodipendenti. Io avevo dato la mia disponibilità ad andare all’estero. Nel 1990 mi fu prospettata questa ipotesi e ho accettato».
Dove ha cominciato la sua opera?
«I primi 10 anni sono stata in Ciad. Certo, il caldo, la malaria, ma ho sofferto di più la mancanza di comunicazione. Per fare un esempio, per telefonare, dovevo fare 200 chilometri di pista (terra battuta, ndr) per trovare una cabina pubblica che spesso non funzionava. Vivevamo in casette piccole in mezzo alle capanne, facevamo il bagno nei fiumi. Sono stati 10 anni duri ma molto belli. Poi sono andata in Camerun per un anno ma non mi sono trovata bene. Vivevo in una casa molto bella, anche troppo».
Quindi cosa ha fatto?
«Ho preso un anno di riflessione, durante il quale sono stata in Italia. Poi sono ripartita per l’Africa, stavolta nella Repubblica Centroafricana, in un centro chiamato Berberati, dove mi trovo ora. Siamo in mezzo alla foresta, vicino ad un fiume che ci separa dal Congo».
Quali sono le differenze con gli altri posto dov’era stata?
«Di clima innanzitutto. In Ciad eravamo vicini al Deserto del Sahara e la terra è arida. Nonostante questo, lì non ho mai visto un ragazzino abbandonato, in Centrafrica sì. In Camerun poi, il centro città sembra quasi occidentale, ma appena fuori ci sono quartieri miseri, ancor più dei villaggi di capanne»
Che attività svolge a Berberati?
«Il vescovo mi ha affidato un centro culturale. E’ l’unico riferimento per i ragazzi. I ragazzi del liceo del villaggio non hanno libri. Il centro ha una biblioteca. Ma non diamo tutto gratis. Ho la convinzione che l’amore non debba essere assistenzialismo ma crescita delle persone. Occorre dare gli strumenti. Ma non c’è solo il centro culturale».
Che altro?
«Abbiamo lanciato un cineforum, avviato la formazione in contabilità e gestione. Tramite il centro culturale diamo la possibilità ai ragazzi di esprimersi. Poi dal 2005 abbiamo aperto un centro internet. E’ molto utile, anche perché i sacchi di posta facevano fatica ad arrivare. Una volta, mentre ne trasportavamo uno abbiamo fatto un brutto incontro».
Ce lo racconta?
«Siamo stati fermati da undici militari che ci hanno derubato e picchiato. Poi mi hanno fatto firmare un foglio con le loro rivendicazioni da inviare al presidente centroafricano. Dopo quell’episodio la situazione si è un po’ calmata nel Paese». Non vi siete fermati al centro internet comunque. «No, c’è anche una terza “pietra”. Una sera siamo usciti per le vie della città e ci siamo scontrati con la realtà di bambini e ragazzi che vivono per strada. I miei collaboratori hanno proposto la creazione di un centro di accoglienza per farli dormire, ma io ho rifiutato. Ho invece avviato una serie di incontri formativi per giovani coppie. Il desiderio era che le coppie potessero accogliere i ragazzi».
Che risultati ha ottenuto?
«Ad oggi 20 coppie hanno accolto i 70 ragazzi che abbiamo tolto dalla strada. Sono giovani dai 7 ai 20 anni. L’inserzione nelle famiglie è stata più difficile per i più grandi. Uno di loro una notte è morto e questa cosa ci ha fatto molto male. Ci siamo interrogati». Cosa avete fatto? «Due dei “papà” sono andati al Comune a chiedere della terra da poter coltivare. Abbiamo creato un centro educativo agricolo-pastorale che si chiama “Sara mbi gazo”. Ci sono ora 10 camerette per 20 ragazzi che nel fine settimana torna nella propria famiglia di riferimento. In questa struttura lavorano i ragazzi che hanno avuto maggiori difficoltà che spesso devono difendersi dalle accuse».
Di che tipo?
«Molti di loro vengono accusati di essere degli stregoni. Sono accuse senza fondamento scientifico. Ci sono delle persone che possono, secondo la legge, accusare delle altre. Spesso le vittime sono le persone più deboli, come ragazzi e donne anziane. La pena spesso è la galera». Cosa fate voi per aiutarli?
«Essendo una Onlus possiamo far sì che i ragazzi trascorrano del tempo da noi a scopo sociale, invece che in carcere». Le famiglie che accolgono i ragazzi ricevono degli aiuti economici da voi? «Oltre alla formazione delle coppie, mi occupo di cercare un lavoro ai “papà”. C’è chi ha un negozio di alimentari, chi ripara pneumatici, chi fa il falegname. Ad oggi, sette “papà” su 20 hanno un salario fisso. La condizione generale del Paese rallenta una buona autonomia finanziaria». Sei molto proiettata al tuo lavoro in Africa.
Pensi mai di tornare in Italia?
«Quest’esperienza è giovanissima. E come bambino che fa i primi passi. Mi sembra onesto non lasciarlo in questo momento e anche i miei superiori sono d’accordo».
Cosa pensi che l’Italia e Termoli in particolare possano fare per l’Africa e per progetti come il tuo?
«Dalle parrocchie di Termoli mi arrivano sempre degli aiuti economici e ci tengo a ringraziare chi ci dona qualcosa. Ma l’importante è interessarsi a quello che facciamo. E’ il minimo. Quello che fa male è l’indifferenza e il pregiudizio. Per questo ho cercato di comunicare questa realtà creando un blog in cui racconterò la nostra vita a Berberati».
Le immagini nella galleria fotografica(Pubblicato il 21/09/2009)